Un piccolo assaggio del sequel della mia novellette steampunk “Cardanica”. Entrambe le storie sono disponibili in e-book a 2,90 euro sul sito di BookRepublic. Formato epub e Kindle.

Avrei dovuto capirlo subito che c’era qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui quella “cosa” ci guardava, acquattata nella sabbia. Immersa nei brontolii dei suoi intestini. Ma avevo solo undici anni e a quell’età i portenti generano soltanto stupore. Non paura. E poi il deserto è così grande che hai sempre l’impressione che le sue ali ti possano proteggere, che sia più forte di ogni avversità. E che ci sia sempre un luogo dove scappare… Soprattutto, non avremmo mai dovuto toccare nulla,  né tantomeno chiederci che cosa fossero quelle specie di… Ah, che senso hanno i rimpianti?  Se sono diventato quello che sono lo devo solo a quel giorno sulle dune, a quell’incontro. E forse un po’ anche all’imprudenza di mio padre…
(I diari di Yussouff)
 


 
Yussouff sollevò la mano guantata sulla fronte e guardò in alto. I bagliori erano accecanti e per quanto strizzasse gli occhi riusciva a vedere solo giochi di luce e crudo metallo spalmato di riflessi. “Che cos’è, papà?”
 
La struttura era alta come una cattedrale, ma affondava nella sabbia con angoli incoerenti. Intorno, semisepolto, un rosario di rottami arrugginiti e minutaglia volata giù a causa del vento. Nel punto in cui il pachiderma sprofondava di traverso nelle dune s’indovinava una fila di gigantesche sagome tonde: mozzi di ruote, attorno ai quali non era rimasto nulla, né pelle né caucciù.
 
Rashid si pulì il naso in una manica e districò l’arco dalla spalla. Erano giorni che inseguivano un’alaquadra, e neanche una volta il grosso volatile si era abbassato a sufficienza da poterlo colpire. L’uomo aveva sprecato una dozzina di frecce e adesso gliene rimanevano sì e no la metà. In compenso, a forza di spingere lo sguardo nel cielo terso, l’unico occhio sano gli era diventato gonfio e rosso. E spurgava lacrime torbide di continuo.
 
Tossì e sputò nella sabbia un grumo di catarro nero.
 
Ora l’uccello era appollaiato su una delle cuspidi del relitto, con ancora nel becco – vivo – quella che avrebbe dovuto essere la loro cena, un piccolo roditore che dimenava furiosamente la coda.
 
“Che accidenti è, papà?” ripeté il bambino.
 
Rashid incoccò una freccia. “Un topo delle rocce, carne tenera. Ti piacerà.”
 
Il bambino si allontanò zoppicando.
 
Dalla sabbia spuntavano qua e là brandelli di tela secca e lingue di cuoio che dovevano essere servite come rinforzo per il telaio intrecciato degli pneumatici.
 
Yussouff arrancò su per una duna. Arrivato in cima, si guardò indietro arricciando il naso. La struttura puzzava, l’aria intorno odorava di carne morta e uccelli.
 
Vide il padre tendere l’arco. Un attimo dopo lo sentì imprecare.
 
Qualcosa gli sfiorò la punta del naso, la acciuffò al volo.
 
Una piuma.
 
L’uomo si lasciò cadere nella sabbia,
 
 le mani sospese a mezz’aria, attento

 a non posarle da nessuna parte. Entrambe le maniche della tunica erano lorde di muco secco. Per quanto malato – le tossine da settimane erano passate all’offensiva e avevano cominciato a dilaniare adagio i suoi organi interni – si sforzava di non darlo a vedere e tirava avanti come meglio poteva.
 
Yussouff scrutò la struttura, c’erano altri uccelli là in cima. Una colonia intera, invisibile a chi stava sotto. Molti di loro avevano portato lassù sfilacci di gomma con cui avevano edificato i loro nidi nel metallo: su una cremosa colata di guano bianco, che avvelenava la luce e bruciava la congiuntiva.
 
“Papà!”
 
L’alaquadra che avevano inseguito aprì improvvisamente il becco e lasciò cadere il boccone da qualche parte lì sotto.
 

Planò dal cielo un altro volatile. Ritrasse le ali e un istante prima di toccare il relitto protese le zampe in avanti per atterrare sul filo di una lamiera tagliente (meglio quella della sabbia!). Stretto nel rostro adunco teneva un grosso pesce. Doveva aver percorso almeno un migliaio di chilometri per scovare una preda del genere.
 
Spalancò il becco e Yussouff ebbe l’impressione di sentire una serie di tonfi accompagnare la caduta del pesce nelle viscere del metallo.
 
Chiamò nuovamente suo padre, più forte.
 
Non avevano che qualche strisciolina di carne secca, pochi sorsi d’acqua e quattro frecce.
 
“Dobbiamo salire là, papà.”
 
Il vecchio tirò su con il naso e attizzò il fuoco con un pezzetto di lamiera. Non c’era niente da abbrustolire, ma avevano acceso ugualmente un falò per riscaldarsi.
 
“Forse ci sono delle uova” rincarò il bambino. “E io non me la sento più di andare a raccogliere le frecce.” Nessuno toccava la sabbia a mani nude. Mai. Salvo ritrovarsi le pelle suppurata dai veleni.
 
Il ragazzo aveva ragione, non avevano più nulla da mangiare. “Domani, Yuss, domani salgo io.”
 
Il bambino fissò il padre nell’occhio buono e annuì; l’altro, il sinistro, era una perla opaca incastonata in una raggiera di croste. Ci sarebbe andato lui, se solo la sua gamba non avesse ricominciato a fargli male. “E io con l’arco ti coprirò da terra.”
 
Parlava già da adulto il bambino, colpa del deserto che ti strappava l’infanzia dalla pelle. Rashid distolse lo sguardo. Nonostante il buio, e forse proprio per quello, la struttura era una presenza viva, soverchiante. Udivano entrambi lo zampettare vigile degli uccelli, gli scricchiolii delle lamiere, l’assonnato sibilare del vento sul metallo. I borborigmi che salivano dalla sabbia sotto di loro.
 
Doveva essere lì da anni, decenni forse.
 
“Tu lo sai che roba è, ma non me lo vuoi dire, vero papà?” Sempre la stessa domanda, come un tarlo al lavoro. Aveva visto sette lettere spuntare dalla sabbia, incise su una paratia di metallo a una delle estremità. “È una cosa che si chiama Robredo.
 
Rashid sputò altro muco nel fuoco e si passò la manica sulle labbra. Come faceva a dirgli che loro erano solo bocconi un po’ più grossi di quelli che gli uccelli trasportavano nel becco? E che sarebbe bastato niente perché la Robredo se li prendesse entrambi, padre e figlio insieme. “Non la devi toccare, è peggio della sabbia.”
 
Gli uccelli non toccavano mai terra, era così da sempre attorno alla Robredo. Il loro guano era linfa/olio/balsamo e nettare che colava tra gli ingranaggi e li teneva in vita. Costantemente lubrificati e in movimento.
 
“Ma gli uccelli, allora! Perché loro possono?”
 
“Possono cosa?”
 
“Starci sopra e portargli da mangiare…”
 
Il vecchio scosse il capo. “Non credo ci siano uova lassù, ma andrò lo stesso a dare un’occhiata. Dormi adesso. E vieni qui vicino se hai paura.”
 
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Un grazie a Franco Brambilla, copertinista di Urania, per la sua splendida e immaginifica interpretazione della Robredo.
 
(altre immagini di Adam Tredowski).