Un poliziotto albanese sta riportando in patria un pericoloso criminale sul sellino della sua Ducati. Dove prima c’era l’Adriatico ora c’è una fetida terra di nessuno, arsa dal sole e contaminata dai veleni. L’incipit del racconto vincitore dell’ultimo Premio Robot…

«Il mare si prosciugherà e le conchiglie sanguineranno…».
 
Rudan preme adagio il pedale del freno, rallenta, si ferma. Allunga i piedi a terra, i muscoli in tensione. Alle sue spalle, il corpo sulla sella s’irrigidisce. “Perché ci siamo fermati?”.
“Benzina! Siamo quasi a secco”.
Intorno al piccolo promontorio non c’è nulla. Terriccio arso dal sole, pietre, un accenno di pista che scende a serpentina fino a valle. Barbagli nella sabbia.
 
Rudan si sfila il casco integrale e lo incocca al manubrio. Con un’acrobazia smonta dalla moto – una fiammante Ducati 2098 con la carenatura ammaccata – e cammina fino al ciglio della scogliera. Un tempo questo era un mare, ora è solo una fetida terra di nessuno: macerie che emergono dal nulla, relitti spolpati di vecchie navi. Pozze di veleni che smaltano il paesaggio di riflessi iridescenti.
L’Adriatico è morto e questo è ciò che resta.
Inforca i suoi Ray Ban scuri, estrae dal giubbotto un pacchetto di Marlboro e ne appende una all’angolo della bocca. Scruta il cielo.
 
“Non mi liberi?”. Il tipo sulla moto ha i polsi ammanettati dietro la schiena a un grosso anello d’acciaio saldato al telaio.
Rudan scuote distrattamente il capo. “Non credo”. Accende la bionda osservando il panorama che si apre sotto di loro, già parzialmente in ombra. Meno di cinquanta metri di dislivello, ma una pendenza bastarda, tra rocce taglienti e rivoli di sabbia instabile. Centottanta chili di moto e un passeggero a fare da zavorra non sono il massimo per affrontare la discesa, meglio muoversi a piedi. Da soli.
 
L’aria puzza di marcio. Non un uccello in cielo.
Poco più avanti il declivio sfocia in una radura stipata di baracche color sabbia. Ma a guardarle bene non sono affatto semplici baracche. Architettura stondata, oblò al posto delle finestre, un profluvio di scale esterne vaiolate di ruggine. E poi cupole, archi, tralicci, pilastri d’acciaio, cavi. Stesi a imputridire al sole o anneriti dal fuoco.
Benvenuti a Nuova Rimini, cittadina subacquea di 1400 anime. Edifici come cisti esposte al sole. Resine epossidiche, vetro temperato, metallo a vista cavalcato dall’ombra delle nubi.
 
Rottami e schegge che affiorano da strade che non sono mai state strade.
“La vedi?” chiede Rudan.
Il tipo sulla moto ammicca nervoso, ma ha un problema più urgente a cui pensare. “Mi liberi o no, cazzo? Quanto credi che riesca a tenere in piedi quest’affare con le gambe?”. È seduto sulla parte arretrata della sella, dove reggere il peso è ancora più faticoso.
 
Rudan sogghigna, la sigaretta tra le labbra. Torna alla moto, sgancia lo zainetto dal telaio e ne estrae una bottiglietta d’acqua e un paio di taniche flosce di PVC da 5 litri, che lega insieme con una tracolla. “Meglio adesso?” chiede, mettendosele in spalla. Trangugia un sorso.
“Cazzo vuoi fare, Berisha? Lasciarmi qui sotto il sole?”. Il tipo ha la voce rotta da un misto di rabbia e paura. È molto più basso di Rudan e in bilico sulle punte non sa quanto possa resistere in piedi con una moto da 180 chili tra le gambe.
 
Ancora un’occhiata al cielo, un’ora e mezza al massimo e calerà il buio. “Hai ragione”. Rudan torna sui suoi passi, svita di nuovo il tappo della bottiglietta e l’appoggia in equilibrio precario sul serbatoio. “Rovesciala e non ne avrai altra. Sta a te decidere se sono meglio i crampi o la sete”.
Il tipo lo fissa col panico negli occhi.
“Ti basta chinarti e abbrancare la bottiglia coi denti” spiega Rudan. “Vuoi che ti tolga il casco, Manetti?”. Glielo sfila, senza attendere risposta, mentre quello gli urla “Bastardo!” schiumando goccioline di bava dalle labbra.
“Non starò via molto”. Lascia cadere il casco nel terriccio, ha le mani madide di sudore. “Sei un cavalletto loquace, lo sai. Loquace e schifosamente sudato”.
“MALEDETTO FIGLIO DI PUTTANA!”. Sputa saliva, le guance paonazze.
 
Rudan annuisce. Lo sa, è per questo che fa lo sbirro. E si scorazza quello stronzo di Manetti da 450 chilometri. Rotta Milano-Valona, la più diretta, anche se non necessariamente la più veloce.
S’incammina verso il ciglio del dirupo e un attimo prima di mettere un piede sul declivio, estrae la .44 dalla fondina ascellare e la punta teatralmente sul prigioniero. “Tieni in piedi la moto, Manetti. Non fare lo stronzo come tuo solito”.
 
Disegno di Giacomo Pueroni.
 
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