Il gran finale comincia con una preghiera, una supplica che le popolazioni nomadi di Mondo9 rivolgono al cielo e alla nave che lo domina. Ecco le prime battute dell’ultimo atto della saga. In attesa del fix-up cartaceo…

“Un battito per me, un battito per la nave. Un battito per la vita, un battito per la morte…”. (“Alla nave del cielo”, antica preghiera nomade)

La creatura ritrasse il dito dal barile e se lo cacciò in bocca. Nonostante fosse pura come cristallo, l’acqua doveva essere lì da secoli. E aver trascorso nel ferro almeno le ultime mille stagioni, alternandosi tra l’essere brodo caldo e maleodorante d’estate e ghiaccio azzurro e pesante d’inverno.
“È buona?” chiese timidamente Sargàn. A parlare non era il saggio aviatore, solo la sete che si portava appresso fin dal mattino.
Erano saliti ormai da giorni sopra l’anello dei relitti, ma tra i sentieri di montagna, se ne incontravano ancora, incastonati tra le rocce, più marci e arrugginiti di quelli a valle. O quasi impossibili da individuare perché ridotti a piatti rottami che affioravano appena dai prati d’erica ciliaris.
Nell’ultimo, Sargàn aveva scorto una fila di fusti all’apparenza ancora integri, colmi fino all’orlo di un’acqua che sembrava distillata da Dio in persona. “Allora, si può bere o no?” incalzò la sua guida.
La creatura scosse la testa e batté le nocche sull’esterno del barile. “È qui dentro da quando tu non eri nato. Può darsi che sia ottima per tornare da dove sei venuto”.
Aaaah, che ne sai tu? Al massimo sarà neve sciolta e risciolta!”.
Al massimo…”. Ma c’era qualcosa che non gli aveva detto.
Sargàn, comunque, si allontanò dai fusti e rivolse gli occhi al cielo. Non c’era niente lassù, il suo colore però toglieva il respiro. Pasta di turchese, senza nemmeno una nuvola (quelle semmai le avevano incontrate più in basso), aria tagliente che ti seccava la gola e ti faceva tossire. Hai voglia a guardare i prati e i relitti, i burroni che si aprivano improvvisamente dietro una curva del sentiero e l’anello di carogne metalliche laggiù dove arrivava lo sguardo. La sete è sete e loro erano saliti dal deserto senza una goccia d’acqua. Convinti che lassù avrebbero trovato la neve. E invece la neve era molto più in alto, a tre giorni di cammino, che potevano diventare quattro o cinque se si fermano ogni volta che scorgevano qualcosa a forma di tinozza o di giara.
La mongolfiera, quella ci voleva! Ma era impossibile volare sicuri a ridosso delle rocce. E l’avevano lasciata giù, appallottolata e gettata nella stiva di una nave piena di buchi, insieme con il cestello per il passeggero e il bruciatore.
Era là sotto che avevano incontrato Naila e Asur, tra lamiere taglienti e boccaporti spaiati, e avevano subito stretto amicizia dandosi l’obiettivo comune di scovare il nido della Miserable battendo strade diverse. Sentieri che si erano separati già dalla partenza; lungo e tortuoso il primo (quello di Sargàn e l’Interno), ripido e impervio già dalle prime battute il secondo.
C’erano voluti due giorni per districarsi dal cimitero di relitti e cominciare a inerpicarsi per la salita; due maledetti giorni di avventure scalze e piene di graffi, punture d’insetto e ferite. Quarantott’ore di sangue versato e bende ricavate dalle tuniche. Di capitomboli rovinosi e ruggine negli occhi. Razziando quello che si trovava: strumenti per orientarsi con le stelle, qualche abito pesante (benedetto, ora che si trovavano in quota!), ma pochissima acqua da bere. E anche quella puzzolente e salata.
C’erano ovviamente anche diversi cuori marci tra la ferraglia; umani e no. Fetore di cadaveri. Ossa sbiancate dal sole, uccelli mummificati, con le piume che si sbriciolavano tra i polpastrelli non appena li raccattavi da terra.
Nulla valeva come lasciare quell’inferno per cominciare a vedere il panorama dall’alto. Zoppicanti, insanguinati, disidratati dalle sindromi gastrointestinali ma liberi una volta per tutte di respirare aria pulita e di far correre gli occhi su pendii via via sempre più ripidi e verdi.
A che altezza erano? Mille? Millecinquecento metri?
Com’era possibile che le navi – un tempo – salissero fino a quelle altitudini? E che sparsi qua e là ci fossero relitti precipitati da ancora più in alto?
Sargàn si sedette su una pietra e si guardò attorno; in bilico su un costone di roccia, il relitto era una cattedrale di ruggine coricata sul fianco di dritta, coperto dai licheni e trapuntato da colonie di funghi violacei. A causa della pendenza, molte delle ruote erano rotolate lontano o precipitate a valle; quelle superstiti spuntavano qua e là dall’erba con il contorno di mozziconi d’albero e spezzoni di paratie.
Il grosso delle piste, evidentemente, era franato di sotto in epoche remote, insieme con chi le aveva battute. Un centinaio di metri più in alto, dove il sentiero svoltava quasi ad angolo retto, una nube candida si stava affacciando dal vuoto. Passò alle spalle del relitto e per qualche minuto lo avvolse completamente facendolo sparire alla vista.
Presto creatura non sarebbe stata più in grado di proseguire: troppo poco metallo in quota e in prospettiva ancor meno andando avanti. Sargàn non poteva pensare di mantenerla in vita con il solo ausilio della lama del suo coltello. E caricarsi in spalla un rottame, dato il suo stato di salute, era fuori discussione.
Fu l’Interno a venire in argomento e a spiegargli che sì, un modo c’era per tenere una creatura sempre con sé, sebbene non fosse sicuro degli effetti che avrebbe avuto sull’organismo umano. “Hai sete?” cdomandò percuotendo con le dita il fusto pieno d’acqua freddissima. “Non te l’ho detto prima, ma c’è un altro Interno qui dentro. È una donna, le ho parlato… Verrà con te”.
Sargàn guardò senza capire la sagoma diafana della sua guida.
Devi soltanto dissetarti. Lei si farà trovare tra le tue labbra!”.
Ancora una volta Sargàn scossa la testa. Cercò per terra un pezzo di ferro per comunicare e batté una domanda: “E tu?”.
Io rimarrò qui. Questo relitto è abbastanza ospitale. Quando tornerete, se mi vorrai ancora, io ci sarò”.
Sarà dentro di me? Un Interno?”.
Una donna sì. Porta sempre con te il tuo coltello o un monile di metallo. Le basterà”.
Ma…?”.
Dimmi che lo farai”.
Non sapeva che altro aggiungere. Anche se le domande si affollavano nella sua mente come mosche attorno a un uccello morto.
Non ti darà noia”. Lo incalzò Creatura. “I mechardionici possono avere due cuori. Tu avrai due anime”. Si sollevò dal fusto senza tuttavia scostarsene del tutto. “La cosa non può certo farti male”.