Un breve estratto della novelette steampunk  “Cardanica” per invitarvi all’acquisto dell’e-book (2,99 euro su tutti gli store, Amazon compreso). Disponibile in formato epub e Kindle…

Il Guardiasabbia sollevò appena il cappello e si passò le dita sul cranio lucido. I lunghi tergicristalli neri spazzolavano adagio il vetrogel della plancia alimentandolo con un composto di alcali e sali minerali. Il primo giorno del quarto mese di viaggio era un mercoledì nuvoloso, che prometteva pioggia entro sera. Avevano avuto grane la notte precedente e quella prima ancora: piccoli inconvenienti in manovra, dovuti a improvvisi cali di regime dei motori, abbastanza rognosi, però, da far scattare gli allarmi e innervosire l’equipaggio.
 
Da oltre sei settimane non vedevano altro che dune e terra arsa dal sole: una sterminata monotonia di gialli, interrotta soltanto dal rotolare indolente dei grossi cespugli a palla, entro i quali – protetti da una cellula ricavata tra le spine – viaggiavano qualche volta gli Ghmor, i nomadi del vento che abitavano le aree subtropicali di MondoNove.
 
I tergicristalli rientrarono silenziosamente nelle loro sedi e lasciarono che il vetrogel finisse di bere. Tutto sulla Robredo era stato pensato per sopravvivere a condizioni estreme e a un impiego esasperato. Garrasco D. Bray era stato imbarcato su altri quattro cargo col grado di Guardiasabbia, ma nessuno di questi poteva reggere il confronto con quella imponente meraviglia: trentasei ruote – cinque metri e quaranta di diametro ciascuna – oltre 25.200 tonnellate di dislocamento, otto caldaie in grado di sviluppare 45.000 cavalli vapore, 73 uomini di equipaggio, sei compartimenti indipendenti, il che significava altrettanti treni gomme autonomi. Un capolavoro di metallo e vetrogel, all’interno del quale, incastonate come autentiche gemme di ingegneria meccanica, c’erano le sei aree che consentivano alla Robredo di viaggiare senza eccessivi scossoni su qualsiasi asperità del terreno, i sei pneumosnodi. Ognuno di loro valeva da solo più del resto della nave. Se la Robredo fosse morta, naufragata nelle sabbie subpolari o spezzata dalle tempeste elettriche della regione attorno ai grandi laghi, gli pneumosnodi si sarebbero sganciati dal resto del cargo e un programma li avrebbe messi in grado di raggiungere autonomamente il metroporto più vicino, dove sarebbero stati installati sul primo cargo compatibile. Qualsiasi armatore avrebbe sborsato cifre da capogiro e allestito in fretta e furia un esercito di tecnici pur di poterli montare a bordo della propria nave.
 
Ovunque era stato, Garrasco non aveva visto più di una parure di due pneumosnodi. E mai uno dell’ultima generazione, di quella cioè a cui appartenevano gli pneumosnodi della Robredo.
 
Il secondo pilota Victor Galindez piegò leggermente il timone a sinistra. Con uno stridere di lamiere levigate, la Robredo si accinse a curvare. Il rumore crebbe d’intensità, fino ad assumere il tono lamentoso di metallo contro metallo. Il pilota aumentò l’inclinazione della ruota di governo, puntellandosi con i piedi sul pavimento di linoleum. Per evitare che la Robredo si impantanasse prima ancora di iniziare la curva la velocità non doveva scendere che di un paio di miglia all’ora. Garrasco tenne sott’occhio i comandi in plancia.
 
“Sei al minimo, Victor.” Girò la testa verso l’oblò alla sua sinistra, inspirò profondamente e premette la fronte contro il vetrogel, che gli aderì al viso allungandosi verso l’esterno. Trattenendo il fiato nella membrana, si volse a guardare verso poppa. Si tirò indietro, espirò e attese di riprendere fiato. “Ci sei, ora tienila.”
 
Molto pigramente, una ventina di metri dietro di lui il convoglio stava disponendosi ad arco. Segno evidente che, attraverso gli pneumosnodi, la prua della Robredo stava inducendo il resto della nave ad assecondare la curva. Sul ponte di comando lo stridio delle superfici che sfregavano le une contro le altre si fece assordante. Garrasco tornò a immergere la testa nel vetrogel e si protese verso l’esterno. Rinvigorita dal recente pasto, la sottile membrana elastica si tese aderendo a naso e bocca.
 

Dopo una lunga apnea, Garrasco riparò con la testa all’interno della nave, si massaggiò le guance e prese le cuffie da calcarsi sugli orecchi. Davanti a lui, Victor si era spostato leggermente verso destra e faceva leva con il corpo per aumentare di qualche grado l’inclinazione verso sinistra del timone. Garrasco sganciò un paio di cuffie da una paratia e gliele accomodò sul capo. Voltandogli le spalle, il secondo pilota Victor Galindez lo ringraziò con un cenno del capo. Una serie di colpi riverberò sotto il pavimento e mandò Garrasco a sbattere contro la paratia di dritta. Anche sotto la cuffia, il lamento strozzato delle superfici di metallo che si disponevano secondo un nuovo asse, sfregando le une sulle altre, arrivava all’udito come uno sciame di aghi arroventati. La plancia s’impennò verso l’alto – una, due volte – e poi prese a sobbalzare freneticamente, come scossa da un inatteso flusso di energia che corresse appena sotto il pavimento.
 
“Che cos’è stato?” chiese Victor franando in mezzo alle leve e alle cloche che separavano la postazione di governo da quella del navigatore. Una sensazione di panico si stava facendo largo nella sua mente.      
La plancia era caduta nel silenzio. Tutti i led della consolle erano accesi, ma le luci apparivano più flebili.           
“Siamo fermi” spiegò Garrasco aiutandolo ad alzarsi. “Qualcosa là fuori ci ha fatto entrare in stallo e i motori si sono spenti.”           
Le lucine dei comandi pulsarono deboli un paio di volte e si spensero.            
“Oh, Cristo. Non c’è corrente. Se i generatori non partono, con questa inclinazione, tempo mezz’ora e andiamo sotto.”          
 
Victor accese l’interfono ed ebbe appena il tempo per urlare tutta la sua frustrazione. Il Guardiasabbia lanciò un’occhiata al grosso orologio analogico sulla consolle. Senza corrente erano isolati. Se volevano sincerarsi di cos’era veramente accaduto, non c’era che un modo: abbandonare la plancia, entrare nel primo pneumosnodo e raggiungere da lì il resto della nave. Non era prudente scendere a terra e beccarsi qualche infezione o il morso di un insettoratto. Men che meno se fossero stati costretti a fare più di tre passi all’aperto.     
Senza contare che gli pneumosnodi dovevano avere già innescato da un paio di minuti il loro programma di sopravvivenza autonoma (SA), disponendosi con i loro congegni idromeccanici ad assumere la forma più congeniale al distacco dalla Robredo (la loro unità madre) e alla crociera. Il che voleva dire due sole cose: 1) la Robredo era perduta; 2) bisognava sbrigarsi. Se solo avessero tardato a muoversi, correvano il rischio di non essere riconosciuti idonei al programma SA ed essere respinti come ospiti indesiderati. O magari accolti per venire utilizzati come combustibile o grasso lubrificante.            
 
“Prendiamo delle armi” latrò Garrasco all’indirizzo del suo secondo ufficiale.          
“Non ne abbiamo il tempo, Guardiasabbia.” L’uomo stava lottando con la manopola del portello stagno che conduceva al primo corridoio-limbo.   
Garrasco afferrò una torcia strappandola dal laccetto di gomma che l’assicurava a una paratia e si infilò nel vano in penombra. Una dozzina di passi più avanti, esauritasi la luce che filtrava dai finestroni della plancia di comando, il cunicolo era immerso in un’oscurità liquida. Fino al primo pneumosnodo non avrebbero più avuto un filo di luce. Poco più avanti, una sequela di rumori meccanici annunciò loro una poco rassicurante attività di trasformazione. Lo pneumosnodo stava lavorando.    
Victor smise di procedere al piccolo trotto e rallentò improvvisamente. Il battere dei suoi scarponi lasciò il posto a uno scalpiccio ovattato.           
“Che cosa Cristo ti succede?” gli gridò il primo ufficiale, distanziato di una dozzina di passi.          
“Olio” rispose guardandosi i piedi. “Quel maledetto bastardo sta lavorando sodo. Ha bisogno di nove barili d’olio per procedere alla conformazione funzionale. Ci sono più binari, ingranaggi, pistoni e giunti cardanici là dentro che in una città di cinquantamila abitanti.”           
“Lo so. Sta solo cercando di sopravvivere. A quanto mi risulta gli va bene qualsiasi cosa umida.”            
Victor fece una smorfia e riprese a camminare, attento a non scivolare. “Sì, anche sangue e carne umana. Basta che lubrifichi le sue fottute superfici metalliche.”           
 
Avevano percorso quasi due terzi del corridoio-limbo. Ogni pneumosnodo ne aveva due, che gli servivano da area di smaltimento nel quale far defluire residui e scorie della lenta metamorfosi meccanica; sostanzialmente, olio, grasso lubrificante, particolato metallico. Ma soprattutto rumore, l’elemento di scarto più inutile e abbondante. E certo il più fastidioso. I due uomini camminavano su due dita d’olio tiepido e dovevano aggrapparsi l’un l’altro per non finire con il culo a mollo. La torcia fendeva a malapena il buio del corridoio ma non poteva nulla contro la consistenza liquida del rumore che veniva dalla parete d’acciaio di fronte a loro. Anche se protetti dalle cuffie, Garrasco e il suo secondo sentivano sin nelle viscere i rombi che esplodevano nel buio. Quando la luce della torcia tremolò e si spense, temettero che la “voce” dello pneumosnodo li avesse battuti per sempre.      
 
Alla fine però toccarono la parete di separazione. Venti centimetri di acciaio temperato a caldo, nei quali era stato ricavato un portello a tenuta stagna alto meno di un metro e mezzo e largo un’ottantina di centimetri.         
Garrasco passò una mano sul metallo liscio ed ebbe la riprova di quello che temeva. “Scotta, senti qui.”         
L’altro allungò una mano e fischiò tra i denti. Da quando la Robredo si era fermata, non erano passati più di dieci-dodici minuti. “Più aspettiamo e meno suderemo una volta là dentro.”         
“Già, ma non possiamo aspettare che lo snodo si sia raffreddato del tutto. Potrebbe metterci ore. E forse, sarà già a venti miglia da qui.”        
 
Il taccuino che ho trovato sullo pneumosnodo mi servirà da diario. D’ora in poi farò le mie notazioni e consegnerò alle poche pagine bianche in fondo pensieri e impressioni del nostro nuovo ambiente. Staremo a bordo per settimane e, a quanto pare, tutto qui dentro è una meraviglia. Victor è scosso, come me del resto. I nomi che abbiamo trovato sui primi fogli del taccuino ci hanno posto una serie di allarmanti interrogativi. Chi ha compilato la lista? Perché? È precedente o successiva al naufragio della Robredo? Cardanic – così ha detto di chiamarsi lo pneumosnodo – si sta dimostrando piuttosto premuroso con noi. Ma io comincio a farmi un sacco di domande.         
 
Victor chiese spazio al suo ufficiale e si fece avanti per afferrare la maniglia circolare. Cercò di ruotarla in senso orario, ma il meccanismo non si mosse. “È bloccata.” Sbuffò tra i denti e dovette staccare le mani, perché il metallo scottava. Il primo ufficiale si tolse la giacca, ne strappò una manica e la porse a Victor perché la avvolgesse attorno alla maniglia.          
 
“Accidenti, così scivola.”      
“Lascia fare a me.” 
 
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(Immagini di Franco Brambilla, AlmacanGeorge Grie).