Quest’anno ricorrono i cinquant’anni non solo del primo uomo sulla luna, che diede la stura a innumerevoli pellicole cinematografiche a tema, ma anche dell’uscita italiana, per i tipi dell’Einaudi, di un romanzo che a suo modo fece epoca e scandalo, tanto da venir pubblicato nel nostro Paese addirittura sette anni dopo l’apparizione in patria. Il motivo di questo ritardo viene attribuito alla sua scabrosissima trama, che – almeno per quei tempi – pare avesse indotto lo stesso autore, molto dopo la stesura del libro, a inserire un capitolo conclusivo con una nota di speranza, proprio per evitare problemi di censura in diverse nazioni. Stiamo parlando del celeberrimo “Un’arancia a orologeria”, scritto in tre settimane dello scrittore britannico Anthony Burgess (Manchester, 1917 – Londra, 1993).

Ricordare nel suo anniversario tondo questa pietra miliare non solo letteraria ma anche cinematografica (Stanley Kubrick ne trasse un film cult nel 1971) offre lo spunto per parlare del gergo con il quale Burgess fece parlare i suoi drughi.

In inglese si chiamano “artlangs”, da noi molto più prosaicamente “lingue artistiche”. Sono quelle, spesso inventate di sana pianta, che gli scrittori utilizzano per dare fascino, spessore e coerenza ai loro universi narrativi. Gli esempi non si contano: il più illustre è probabilmente J.R.R. Tolkien, che per il suo “Il Signore degli Anelli” ne creò addirittura diverse. Ma all’espediente ricorsero in parecchi, con risultati decisamente da ricordare, da George Orwell per “1984” (la neolingua) a Ian Banks per il “Ciclo della Cultura” (il marain), da Christopher Paolini per il “Ciclo dell’Eredità” (l’antica lingua) agli abitanti della Los Angeles di Blade Runner, che parlavano il cityspeak, uno strano slang che mischiava giapponese, spagnolo, tedesco a tracce di ungherese.

Per certi versi anche la metallingua di Mondo9, che fa dialogare navi e umani, risponde alla stessa logica alla base delle “artlangs” degli autori citati: inventare una forma di comunicazione che suggerisca empatia tra membri di una medesima comunità e al contempo marchi un territorio segnandone confini invalicabili non solo in termini di affiliazione e comprensione reciproca…

La più suggestiva resta, però, il nadsat sviluppato da Anthony Burgess per far parlare i suoi drughi (o soma) in “Un’arancia a orologeria” (1962). Tanto che Stanley Kubrick se ne servì generosamente nel film che fu tratto dal libro – “Arancia meccanica” (1971). Il nadsat era un riuscito mix di inglese colloquiale e russo, che ebbe dalla sua – forse proprio per la celeberrima trasposizione cinematografica – uno straordinario “impatto scenico” (prova ne è che su Internet pullulano i vocabolari di nadsat).

Una prima fonte di curiosità sta addirittura nel titolo di libro e film. In lingua nadsat la parola “orange” (arancia) viene fatta derivare dal malese “orang”, che significa “uomo”, così che un’arancia a orologeria starebbe per un uomo a orologeria, quindi pronto a esplodere, anche se, in realtà, lo stesso Burgess ha sempre dichiarato di avere preso la locuzione “clockwork orange” da un dialetto parlato nella zona est di Londra dalla classe proletaria (il cockney), che usava indicare con questo termine “qualcosa di bizzarro internamente, ma che appare normale e naturale in superficie”. Qualunque versione si prenda per buona è innegabile che Burgess, creando il suo personale vocabolario, abbia voluto giocare con i due significati.

Una seconda curiosità, che a dire il vero c’entra poco o nulla con la lingua inventata da Burgess, si deve invece alla traduzione italiana del romanzo: nel passaggio dall’inglese al nadsat e dal nadsat all’italiano, il latte+ (nell’originale Milk Plus) è stato genericamente tradotto in “latte corretto”. È invece rimasto invariato, sia nel film sia nella versione italiana del libro, il Korova Milkbar, dove i drughi (gli amici di Alex, il protagonista), proprio all’inizio della vicenda, si ritrovano per organizzare le loro notti a base di ultra violence. “Korova” in russo e in nadsat significa “mucca”, dal che si arguisce che il latte+ altro non è che latte vaccino opportunamente “corretto” con droghe di vario tipo. Ma bando alle ciance, ecco – giusto per passare alla pratica – l’incipit del romanzo e del film. Così uguali, così diversi. Geniali entrambi!

Allora che si fa, eh? C’ero io, cioè Alex, e i miei tre soma, cioè Pete, Georgie, e Bamba, Bamba perché era davvero bamba, e si stava al Korova Milkbar a rovellarci il cardine su come passare la serata, una sera buia fredda bastarda d’inverno, ma asciutta. Il Korova era un sosto di quelli col latte corretto e forse, O fratelli, vi siete scordati di com’erano questi sosti, con le cose che cambiano allampo oggigiorno e tutti che le scordano svelti, e i giornali che nessuno nemmeno li legge. Non avevano la licenza per i liquori, ma non c’era ancora una legge contro l’aggiunta di quelle trucche nuove che si sbattevano dentro il vecchio mommo, cosí lo potevi glutare con la sintemese o la drenacrom o il vellocet o un paio d’altre robette che ti davano un quindici minuti tranquilli tranquilli di cinebrivido stando ad ammirare Zio e Tutti gli Angeli e i Santi nella tua scarpa sinistra con le luci che ti scoppiavano dappertutto dentro il planetario”.

(Incipit di “Un’arancia a orologeria”, Anthony Burgess, 1962, traduzione di Floriana Bossi).

“Eccomi là. Cioè Alex, e i miei tre drughi. Cioè Pete, Georgie e Dim. Ed eravamo seduti nel Korova Milkbar arrovellandoci il gulliver per sapere cosa fare della serata. Il Korova Milkbar vende latte+, cioè diciamo latte rinforzato con qualche droguccia mescalina, che è quel che stavamo bevendo. E’ roba che ti fa robusto e disposto all’esercizio dell’amata ultraviolenza…”.

(Ecco invece lo stesso brano nel parlato all’inizio del film “Arancia meccanica”, 1971, Stanley Kubrick).